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Ricetta dei Tsukemono Ancestrali Giapponesi: L’arte della fermentazione lenta – Verdure marinate giapponesi
Ricetta dei Tsukemono Ancestrali Giapponesi: L’arte della fermentazione lenta – Verdure marinate giapponesi
Storia, cultura e rinascita dei tsukemono
I tsukemono (漬物), letteralmente “cose immerse”, sono uno dei pilastri più antichi dell’alimentazione giapponese. Molto più di un semplice contorno, questi sottaceti incarnano la memoria viva della cucina nipponica. La loro origine risale al periodo di Nara (710–794), quando il Giappone adottò diverse tecniche di conservazione importate dalla Cina, tra cui la salamoia con il sale. In un’epoca senza frigoriferi, le verdure conservate tramite fermentazione rappresentavano una preziosa fonte di nutrienti e un modo per arricchire il riso bianco, allora considerato insipido senza accompagnamento.
I monaci buddhisti, seguaci di un’alimentazione vegetale frugale, ne facevano largo uso. Durante il periodo Edo (1603–1868), l’arte dei tsukemono si codificò: ogni regione, famiglia o monastero sviluppava le proprie ricette con cura rituale. Alcuni sottaceti richiedevano mesi, persino anni di fermentazione in miso, crusca di riso (nukazuke), sakè (kasuzuke) o soia fermentata. I tsukemono divennero una tradizione domestica tramandata di generazione in generazione.
Durante il periodo Meiji (1868–1912), l’industrializzazione introdusse le prime produzioni commerciali di sottaceti, modificando la natura artigianale del prodotto. Se dopo la guerra le ricette tradizionali declinarono a favore dei “sottaceti veloci” all’aceto, oggi si assiste a una rinascita, alla crocevia dello slow food, dello shokunin spirit (l’eccellenza artigianale giapponese) e della gastronomia contemporanea.
I tsukemono oggi: tra tradizione e innovazione
Nei ristoranti kaiseki, i tsukemono sono ancora tra gli ultimi piatti serviti, per “chiudere” il pasto con sottigliezza e freschezza. Nella cucina familiare, accompagnano sempre il riso semplice, i piatti fritti come il tonkatsu o le noodles fredde in estate.
Giovani chef giapponesi stanno rivalutando i tsukemono ancestrali in un’ottica sostenibile, usando verdure dimenticate, sale marino non raffinato, aceti artigianali e metodi di fermentazione lenta. A Kyoto, negozi di sottaceti come Daiyasu o Murakami perpetuano questa arte sposando elegantemente tradizione ed estetica contemporanea.
In Occidente, i tsukemono sono riscoperti nell’onda della cucina fermentata, del microbiota e dell’attrazione per gli umami naturali. Conquistano anche per la loro estetica minimalista e colorata, il basso contenuto calorico e la capacità di esaltare semplici piatti di riso o pesce alla griglia.
Gli antenati dei tsukemono moderni: arte della conservazione e fermentazione lenta
Prima dell’introduzione dell’aceto di riso (ottenuto tramite fermentazione alcolica controllata), i giapponesi usavano tecniche naturali di fermentazione lattica, analogamente ai coreani con il kimchi o agli europei con i crauti. Questi tsukemono antichi non erano solo contorni: avevano un ruolo chiave nell’equilibrio nutrizionale, nell’apporto di probiotici e nella conservazione dei raccolti.
Principali tipi di tsukemono ancestrali o a fermentazione lenta:
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Nukazuke (糠漬け) – Verdure nella crusca di riso fermentata
Origine: periodo Edo (1603–1868), ma probabile derivazione da pratiche rurali precedenti.
Principio: le verdure (melanzane, carote, daikon, cetrioli) sono sepolte in una miscela di crusca di riso (nuka), sale, acqua e batteri lattici naturali, a volte arricchita con alghe, peperoncini o frutta secca.
Fermentazione: lenta e viva, richiede una miscelazione quotidiana per evitare muffe.
Durata: da poche ore a settimane, a seconda della consistenza desiderata.
Particolarità: sapore complesso, acidulo, umami profondo.Le famiglie giapponesi curavano il loro “bacino di nuka” come un lievito madre: alcune trasmissioni di nukadoko (letto di crusca) avvenivano per più generazioni.
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Shiozuke (塩漬け) – Salamoia solo con sale
Uno dei metodi di conservazione più antichi.
Esempi famosi:
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Takuan-zuke (daikon fermentato con sale e crusca per mesi, colore giallo)
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Shibazuke (melanzane, shiso rosso, zenzero fermentati insieme a Kyoto)
Durata: da settimane a mesi.
Uso: spesso serviti alla fine di un pasto kaiseki o a colazione. -
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Kasuzuke (粕漬け) – Marinati nelle fecce di sakè
Uso ingegnoso dei sottoprodotti della produzione del sakè.
Base: fecce di sakè (sake kasu), zucchero, mirin, sale.
Conservazione di verdure, ma anche pesce e carne.
Sapore: dolce, complesso, leggermente alcolico.
Ricetta tradizionale: narazuke, originario di Nara, noto per verdure invecchiate fino a 2 anni in questa pasta beige. -
Misozuke (味噌漬け) – Marinati nel miso
Uso di miso bruno o bianco come substrato di conservazione, con zucchero e sakè o mirin.
Durata: da giorni a settimane.
Uso: soprattutto per verdure dure o uova sode (miso tamago).
Risultato: sapore forte, salato, ricco di umami. -
Umeboshi (梅干し) – Prugne salate e essiccate
Probabilmente il tsukemono più antico conosciuto.
Procedimento: le prugne sono salate, pressate, essiccate al sole e conservate con foglie di shiso rosso.
Virtù medicinali: antisettico naturale, rimedio per disturbi digestivi. Considerate talismani alimentari nei bentō.
Conservazione: fino a molti anni.
Valore culturale e spirituale
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Tsukemono e zen: nei monasteri zen, i tsukemono fanno parte dei pasti frugali chiamati shōjin ryōri. La loro preparazione richiede cura meditativa.
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Rituale domestico: nelle case giapponesi, preparare i propri tsukemono era un gesto di cura per la famiglia, legato ai cicli stagionali.
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Estetica wabi-sabi: questi sottaceti imperfetti, fatti in casa e fermentati lentamente, esprimono il passaggio del tempo, l’arte della semplicità e dell’impermanenza.
Tendenze contemporanee sui tsukemono ancestrali
Oggi questi “antichi” sottaceti sono riscoperti:
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Nei circoli della gastronomia giapponese di alto livello (kaiseki, ryōtei).
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Dai movimenti di fermentazione e permacultura in Giappone e all’estero.
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Da chef che li abbinano a piatti francesi, nordici o vegani (es: melanzane misozuke con purea di sedano).